Skip to main content

Tra il 2020 e il 2021, per ragioni professionali, ho conosciuto diverse persone, sia con cittadinanza italiana, sia con cittadinanza sudanese, residenti a Khartum: per questo, ho seguito e sto seguendo con interesse e apprensione gli sviluppi degli scontri che a partire da metà aprile avvengono in Sudan (soprattutto nella sua capitale), in particolare l’evacuazione di alcuni nostri connazionali, conclusa lo scorso 24 aprile. A partire da fatti di cronaca e da testimonianze dirette, vorrei condividere alcune riflessioni con chi legge questa newsletter.

L’importanza di una buona rete diplomatica

Domenica 16 aprile il sito Viaggiaresicuri.it comunicava che erano in corso scontri a fuoco a Khartum, che l’aeroporto era chiuso e molte strade bloccate. E aggiungeva “Ai connazionali al momento presenti, si raccomanda di non lasciare la propria abitazione ed esercitare massima prudenza”. Lo stesso portale, pochi giorni prima, il 13 aprile, comunicava che la situazione politica e di sicurezza in Sudan era estremamente volatile, con proteste e dimostrazioni represse con la forza dalle Autorità. Raccomandava “di mantenere adeguate scorte di cibo, acqua e benzina”. Il portale citato è stato creato per fornire ai cittadini italiani una panoramica ampia e diversificata di informazioni su tutti i Paesi del mondo; si tratta di un servizio pensato e sviluppato per favorire scelte di viaggio consapevoli e responsabili e si propone di fornire indicazioni utili affinché ciascun viaggiatore possa adottare, in ogni situazione, un atteggiamento consapevole e comportamenti adeguati alle località da visitare. Il mantenimento di rappresentanze diplomatiche all’estero può essere molto costoso. Ma è evidente quanto possa essere preziosa la disponibilità di informazioni chiare e attendibili. In qualche caso, alcune di queste informazioni possono salvare la vita.

La rilevanza delle Forze Armate nella tutela degli interessi nazionali

A seguito degli scontri, dal 15 aprile l’aeroporto di Khartum non è operativo; il porto più vicino, Porto Sudan, sul Mar Rosso, dista 842 chilometri. A seguito degli scontri, la strada che collega la capitale al porto non risultava sicura. I nostri connazionali erano chiusi in casa a osservare le colonne di fumo che si alzavano dalla zona dei palazzi governativi, senza quindi neanche la possibilità di andare a fare la spesa; le lezioni scolastiche sono state sospese improvvisamente. In questo contesto, i nostri concittadini sono stati contattati individualmente e fatti convergere presso la residenza dell’Ambasciatore, da cui un convoglio ha raggiunto un aeroporto secondario, a  30 chilometri dalla capitale. Un volo organizzato appositamente dall’Aeronautica Militare ha dato quindi avvio alla prima fase dell’evacuazione. Il Ministero della Difesa ha comunicato che l’operazione vede coinvolti l’Aeronautica Militare e personale delle forze speciali dell’Esercito Italiano e dei Carabinieri. Da quanto riportato, non si può non riconoscere l’importanza di disporre di Forze Armate in grado di tutelare gli interessi nazionali, in questo caso da individuare nella tutela della vita dei nostri concittadini.

Le alleanze aiutano

Il 23 aprile il Ministero degli Esteri e della Cooperazione Internazionale comunicava che in raccordo con altri Paesi europei e alleati, un ponte aereo internazionale ha permesso di raggiungere la base militare di Gibuti, dove era stata allestita un’area ristoro in attesa del successivo rientro in Italia. Il primo volo di evacuazione ha riportato in Italia 96 persone, di cui 83 italiani e 13 stranieri (la stampa ha riportato essere persone con cittadinanza greca e svizzera, insieme con personale del Vaticano). La base militare citata, intitolata ad Amedeo Guillet, viene generalmente impiegata quale supporto logistico alle operazioni militari italiane in Africa orientale e nell’Oceano Indiano, è stata costruita nel dicembre 2012 e inaugurata nel 2013. La presenza di una base militare nello stato di Gibuti può esistere, evidentemente, in conseguenza ad accordi e mostra chiaramente come disporre di alleanze internazionali possa facilitare la tutela degli interessi nazionali. D’altra parte, anche l’Italia si è dimostrata essere una utile alleata per altri Paesi, i cui cittadini sono potuti rientrare in patria in sicurezza.

Il primato della libertà

Il 24 aprile il Ministro degli Esteri ha dichiarato che “[…] tutti coloro che volevano partire sono stati trasferiti a Gibuti”. Quindi, alcuni concittadini hanno scelto di rimanere in Sudan, nonostante la possibilità di essere evacuati. Anche grazie alle notizie fornite dalla stampa, si è appreso che si tratta principalmente di missionari e personale sanitario. In questo senso, neppure la gravità della situazione e la consistenza delle risorse messe in campo dallo Stato per garantire un rientro sicuro possono prevalere sulla libertà personale. A nessuno è stato imposto il rientro e si può immaginare che le autorità italiane stiano continuando a fare il possibile affinché la loro incolumità sia garantita. Si tratta di scelte che certamente colpiscono, di scelte in qualche modo “parlanti”, che parlano sia a noi, sia alla popolazione sudanese.

Quanto un passaporto italiano può fare la differenza?

Chi ha avuto la pazienza di arrivare fin qui, merita di leggere qualche testimonianza diretta (pur con nomi fittizi e qualche dettaglio romanzato).

Sara, sposata, madre di due figli in età scolare, vive e lavora a Khartum. Negli ultimi anni i figli hanno frequentato una scuola internazionale e diverse volte, a causa dell’instabilità politica e dei rischi per la sicurezza, hanno saltato le lezioni. Da metà aprile tutta la famiglia è chiusa in casa e dalle finestre si osservano strade deserte, si sentono spari ed esplosioni e si avverte l’odore di roghi in centro. Non è possibile uscire, neanche per fare la spesa, e sono continui i contatti con il personale dell’ambasciata e con gli altri connazionali, per capire come comportarsi. In questo contesto, Sara può scegliere se rimanere in Sudan o se andare in ambasciata e di lì in aeroporto, poi a Gibuti, infine in Italia e a casa.

Fatima, sposata, madre di una bambina, vive e lavora a Khartum. Negli ultimi anni ha lavorato per diverse Organizzazioni Non Governative, anche italiane. Da metà aprile non va più a lavorare perché è troppo pericoloso affrontare il tragitto tra casa e ufficio. Anche se la sua zona è tranquilla, si sa che diverse persone hanno perso la vita negli scontri. I prezzi, che già erano alti, sono saliti ulteriormente. In questo contesto, può scegliere se andare verso sud, ad Algazira, dove pare che non ci siano pericoli: un viaggio di tre ore dalla capitale. In alternativa, può provare ad andare in Egitto, al Cairo, salendo su un minibus sul quale resterebbe per un totale di cinque giorni, il tempo di percorrere 2.168 chilometri. E di lì, tentare di raggiungere l’Europa.

Divide Sara da Fatima la cittadinanza, le accomuna la preoccupazione per il proprio futuro, per il futuro della propria famiglia e per il futuro del Sudan.

Cosa succede in Sudan?

Dall’inizio del conflitto, ad aprile, sono morte 300 persone e più di 2600 sono rimaste ferite nei combattimenti tra le due milizie dei generali sudanesi rivali che si stanno contendendo il Paese: cibo, acqua e medicine stanno iniziando a scarseggiare. I segnali di una imminente guerra civile non erano difficili da captare, in quanto per mesi ci sono state forti tensioni tra due delle più potenti figure del governo militare del Sudan: il generale Abdel Fattah al-Burhan e Muhammad Hamdan Dagalo, un signore della guerra nonché leader di un gruppo paramilitare accusato di atti genocidio e stupro in Darfur. Nel 2019 i due contendenti si erano uniti e avevano messo in atto un colpo di stato contro il dittatore Omar al-Bashir, con la promessa di portare il Paese ad elezioni e, quindi, ad un governo civile democraticamente eletto dopo una fase di transizione guidata da un Consiglio sovrano con finalità esecutive transitorie, composto sia da militari, sia da civili. Tali accordi prevedevano anche che il gruppo paramilitare guidato da Dagalo, cioè le Forze di Supporto Rapido, fossero integrate nell’esercito nazionale. Nel 2021 i militari hanno preso il controllo del Paese ed è iniziato un periodo di frequenti manifestazioni, represse con la forza.

Nessuno sa come evolverà il conflitto ma, anche dopo la morte di tre funzionari delle Nazioni Unite rimasti coinvolti negli scontri, una cosa è certa: nessuno appare voler mettere fine alle violenze e negoziare una pace.

Valerio Langè, Dr. Economia e Statistica, esperto in progetti internazionali, Circolo PD Varese

con la collaborazione di Riccardo Tomaiuoli, Segretario GD Varese

PD Varese