Come mi capita spesso, quando svolgo missioni all’estero, di tenere appunti dei miei incontri e di provare a renderli “raccontabili”. Lo faccio quando vado per conto della commissione Esteri e Difesa del Senato o come inviato dell’Organizzazione per la Cooperazione e la Sicurezza in Europa. A maggior ragione in questa occasione dove ho potuto seguire gli ultimi giorni di campagna elettorale negli Stati Uniti e monitorare come osservatore elettorale le operazioni di voto martedì 5 novembre. Qui di seguito un estratto degli ultimi giorni del mio “Diario americano”.
Washington, sabato 2 novembre
Too close to call … Toss Up… troppo vicini , incerto …dai sondaggisti ai commentatori politici, dai funzionari alla Casa Bianca ai diplomatici della nostra Ambasciata, qui a Washington non emerge una tendenza prevalente. A 4 giorni dal voto tutto può succedere. Sarà il voto nei 7 swing states a decidere: Arizona, Georgia, Michigan, Nevada, North Carolina, Pennsylvania, Winsconsin. Al termine di una campagna elettorale aggressiva con una polarizzazione politica estrema soprattutto sui media e social network, la sensazione è di assistere alla più incerta elezione presidenziale della storia americana recente. E probabilmente non conosceremo i risultati definitivi neanche mercoledì 6 mattina. In queste settimane hanno già votato con i diversi sistemi di voto anticipato quasi 70 milioni di americani. E il voto per corrispondenza può essere conteggiato fino al 12 novembre ( se è stato apposto un francobollo entro il 5 novembre) e In alcuni stati il ricorso a questo tipo di voto è stato notevole. Si annunciano già ricorsi come quattro anni fa. Quota 270 è ancora lontana… Non per amici e giornalisti di stanza nella capitale US, che in una cena a Georgetown mi spiegano perché Trump avrebbe già vinto.
Washington, domenica 3 novembre
Oggi incontri con i responsabili delle campagne di Repubblicani e Democratici. Si è parlato dei “campaign topics”, i temi centrali della campagna elettorale. Su tutti l’inflazione, che ha eroso il potere di acquisto soprattutto delle fasce di reddito medio basse. Motivo per cui la Harris potrà contare su una quota minore di elettorato afro americano rispetto ad Obama e Biden. Poi il tema dei flussi migratori su cui Trump ha costruito una delle parti più efficaci del proprio repertorio, spesso condito da toni razzisti e xenofobi. Ma nella campagna è stata centrale anche la discussione su aborto e la libertà di scelta delle donne, questione su cui la Harris punta molto per mobilitare l’elettorato femminile che sembra effettivamente in crescita nelle registrazioni (per votare in USA bisogna registrarsi). Le questioni di politica estera sono state affrontate nei dibattiti televisivi e nelle interviste ma sembrano essere secondarie nella capacità di spostare consenso. Per quanto riguarda la mobilitazione finale dei due partiti è ovviamente concentrata nei 7 swing states, ma è in Pennsylvania che sono puntati tutti i riflettori e in particolare sulle contee di Erie, Lackawanna e Northampton, considerate decisive per accaparrarsi i 19 grandi elettori in palio. A Scranton, il capoluogo della seconda, è arrivato ieri Joe Biden per una delle pochissime iniziative in cui la campagna della Harris lo ha coinvolto. Biden è nato qui ed è molto amato a queste latitudini. Se i Democratici vogliono vincere, devono assolutamente mantenere il cosiddetto “Blue Wall”, il muro blu costituito da Winsconsin, Michigan e Pennsylvania. Perdere anche una sola di queste tre significherebbe spalancare di nuovo le porte della Casa Bianca a The Donald.
Pennsylvania, lunedì 4 novembre
Per arrivare a New York passo da Wilmington e Philadelphia. Sulla carta geografica politica le due città della Pennsylvania sono due puntini blu circondate da laghi rossi. Quelle zone rurali e dei centri più piccoli dove il rosso repubblicano la fa da padrone con i cartelli di Make America Great Again che inneggiano al ticket Trump Vance. Oggi sia Harris che Trump si alternano da queste parti per i loro comizi conclusivi. Da Pittsburgh a Reading fino a Philadelphia, dove Harris chiuderà la propria campagna elettorale con Lady Gaga e Oprah Winfrey. Finiti gli ultimi fuochi di artificio di questa coda di campagna molto aggressiva nei toni, emergono nuovi protagonisti. Non sono più gli strateghi delle campagne elettorali e i comunicatori le figure centrali da intervistare insieme ai candidati, ma gli avvocati. Sono i team di esperti legali dei Democratici e dei Repubblicani a dover lavorare sodo in questa babele di leggi diverse di regolamentazione delle modalità di voto tra Stato e Stato. Hanno votato già più di 75 milioni: oltre la metà dei voti validi delle presidenziali 2020. Trump ha iniziato da qualche giorno a denunciare brogli: “l’unico modo con cui i Democratici possono vincere è imbrogliando”. La sensazione tra gli addetti ai lavori è che, nel caso probabile di incertezza nelle sfide cruciali, Trump possa annunciare la vittoria e lasciare spazio ad uno stuolo di avvocati che ingaggeranno battaglia con le commissioni elettorali statali. E intanto Washington si blinda: negozi chiusi e pannelli di legno sulle vetrine. Si temono scontri e reazioni scomposte. L’assalto del 6 gennaio 2021 al Campidoglio è una ferita ancora aperta. Con gli elettori democratici e repubblicani rinchiusi nelle rispettive bolle: si leggono i giornali e si guardano le trasmissioni dove puoi trovare i tuoi convincimenti e le tue parole d’ordine. Con in testa CNN e New York Times per i Dem e Fox e Wall Street Journal per i Repubblicani. Nulla sembra poter scuotere questi blocchi, neanche gli endorsement repubblicani pro Harris, guidati dai Cheney e dalla famiglia Bush. E in molti iniziano a chiedersi se la democrazia più antica avrà gli anticorpi per reggere a questa polarizzazione esasperata. Stay tuned
New York, martedi 5 novembre
Oggi nel Queens e nel Bronx come osservatore internazionale per verificare la correttezza delle operazioni di voto.
Qui si vota per le presidenziali ma anche per il rinnovo del congresso degli Stati Uniti (tutta la camera dei rappresentanti e un terzo del Senato). Oltre al senato e alla camera dei rappresentanti dello stato di New York, nonché altre cariche minori e referendum. Votano su una scheda “lenzuolo” esprimendo le loro preferenze. Non ci sono urne in cui inserire le schede ma macchine in cui vengono scannerizzate. Ogni tavolo, ogni postazione, ogni scanner ha due persone che lo presidiano: rigorosamente una democratica e una repubblicana. Con gli scanner avranno i risultati subito dopo la chiusura del seggio. Subito dopo le 21 (le tre di notte in Italia).
New York, notte tra martedì 5 e mercoledì 6 novembre
Sono di ritorno a tarda notte nel mio albergo tra la 51st e la Fifth, reduce da una giornata nei seggi tra Queens e Bronx. I pensieri si sovrappongono. Nei giorni scorsi avevo cercato di mitigare il pessimismo della ragione figlio degli incontri e delle interlocuzioni avute con l’ottimismo della speranza alimentato dai sondaggi dei media liberal.
Trump veleggia verso la vittoria: sarà di nuovo presidente degli Stati Uniti. Come ho raccontato in questi giorni su Facebook sarebbe stato decisivo il “blue wall”, il muro blu tradizionalmente a favore dei Democratici. E invece Wisconsin, Pennsylvania e Michigan, così come era successo nel 2016, vedono prevalere The Donald: il muro è crollato, così come le speranze dei democratici di vincere e portare per la prima volta una donna alla guida degli Stati Uniti. La Harris ha avuto solo 3 mesi a disposizione per la campagna elettorale: ci sarà tempo per valutazioni più approfondite, su cosa ha funzionato e cosa meno. In ogni caso il ritorno di Trump rappresenta una sfida per l’Europa e per il nostro Paese. Spero che i più attenti della maggioranza di centrodestra a Roma, archiviati i festeggiamenti, ne capiscano velocemente la portata.
Niagara Falls, mercoledì 6 novembre
Scrivo queste righe mentre con FlixBus vado da Buffalo a Niagara Falls. Trump ha vinto. In maniera più netta del previsto se la osserviamo dall’Europa e dal nostro Paese, che guarda agli Stati Uniti con le lenti deformate dalle proprie categorie politiche e culturali. Una sorta di wishful thinking che non aveva solide fondamenta parlando con amici e interlocutori che vivono negli States. La maggior parte di loro nelle settimane scorse mi dicevano di essere certi della vittoria di Trump. Le motivazioni della vittoria sono diverse. Una è tutta politica. L’ entusiasmo iniziale per la candidatura della Harris dopo il ritiro di Biden non ha compensato la percezione di una vice presidente tenuta in disparte per oltre tre anni con il messaggio sottostante di non essere stata all’altezza delle aspettative. Alla lunga questo aspetto è passato nell’elettorato indeciso, saldandosi con le ragioni principali che hanno influenzato l’esito elettorale.
La più importante è quella economico. Piena occupazione, pil in aumento e salari, che per entità e dinamica di crescita sono decisamente più alti che in Europa, non sono bastati ai Democratici. Decisiva è stata l’inflazione, che ha pesantemente indebolito il potere d’acquisto dei lavoratori, soprattutto quelli con redditi medio-bassi. Uno dei motivi per cui una parte della comunità afro americana ha fatto mancare il proprio supporto alla Harris.
Il tema della sicurezza e del controllo dei flussi migratori viene subito dopo e ha rappresentato uno dei fattori determinanti per il successo di Trump. Percepito, nonostante i toni e la sua aggressività, come più credibile nel rispondere ad una domanda di protezione crescente in un mondo che cambia velocemente, scosso dalle inevitabili criticità della transizione ecologica e digitale.
Il tema dei diritti civili, e in particolare la libertà di scelta delle donne in materia di aborto, ha invece mobilitato maggiormente l’elettorato femminile ma non è stato sufficiente, considerato secondario da una parte importante dell’elettorato rispetto ai diritti economici e sociali.
È così negli ultimi giorni la campagna democratica, in difficoltà sui temi prioritari dell’agenda politica, è scesa sul terreno ideologico, quello preferito dal tycoon, accusandolo di essere illiberale, fascista , misogino: un pericolo per la democrazia. Non è stato sufficiente. Anche perché la polarizzazione ha raggiunto livelli estremi con i rispettivi elettorati compressi nelle loro bolle informative, indisponibili ad ascoltare le ragioni dell’altro. Soprattutto se il confronto rimane sul livello ideologico e non scende sui temi concreti che incidono sul quotidiano delle persone. Sanità, sicurezza, potere d’acquisto e impatto della transizione ecologica e digitale sulle nostre vite.
In questo senso, pur non amando fare paragoni tra Paesi che hanno sistemi politici ma anche dinamiche sociali e culturali diverse, qualche lezione dovremmo indubbiamente trarla anche a casa nostra.
Ma la questione che in prospettiva mi preoccupa di più è l’impatto di Trump sulla politica internazionale. Tema che non è stato centrale in questa campagna elettorale. Si è parlato di medio oriente, di Cina e di guerra in Ucraina nei talk show e nelle interviste, ma hanno scarsamente influenzato i comportamenti elettorali.
In tanti ora ci aspettiamo una politica basata sui rapporti di forza nelle relazioni bilaterali e sull’ indebolimento del multilaterale. A partire dal rapporto con il sistema Nazioni Unite e l’Unione Europea. Ma ancor di più preoccupa lo sponda politica e culturale che Trump può offrire alle cosiddette democrazie illiberali e la costruzione di rapporti privilegiati con chi non crede al progresso della costruzione europea. L’Italia ha le condizioni migliori per avere un buon rapporto con la futura amministrazione Trump. Alcune delle figure chiave della sua campagna elettorale sono ricoperte da Italo americani. Il punto è capire se il governo italiano si accontenterà di fare il junior partner o proverà a fare da ponte tra Stati Uniti ed Europa. Ma per farlo in maniera credibile dovrà difendere le conquiste dell’integrazione europea e lavorare insieme ai principali Paesi europei per creare le condizioni per una politica estera e di difesa comune. Davvero complicato, ma se non ci si vuole rassegnare al declino dell’Europa, è l’unica strada possibile.
Alessandro Alfieri
Senatore e Capogruppo nella Commissione Affari Esteri e Difesa