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Vorrei dare qualche “picconata” a chi sentenzia sull’argomento del titolo, per volontà divina senza avere analizzato i numeri, parte del mio mestiere di una vita. In particolare mi riferisco all’argomento male interpretato e relativo al numero di operatori sanitari in Italia ed al problema, apparentemente connesso, delle liste di attesa per prestazioni sanitarie.

Cominciamo da quanti sono. Dagli ultimi dati OECD (Sigla di Organization for Economic Cooperation and Development) il numero di medici per 1’000 abitanti in Italia è di 4,1 contro una media europea (inferiore) di 3,9 e all’ottavo posto su 28 paesi (Germania 4,5, Grecia 6,2, Somalia 0,02): quindi paradossalmente, e non ci crederete, in Italia non mancano medici. Il problema è piuttosto che metà di questi medici hanno più di 56 anni e quindi dobbiamo aspettarci presto un’emergenza dovuta alla loro quiescenza. Molto diversa è la situazione per il personale paramedico ed in particolare per gli infermieri per i quali l’Italia registra ad oggi 5,7 unità per mille abitanti a fronte di una media europea di 8,2 per mille abitanti che ci pone al 24mo posto su 35 nazioni. In sostanza in questo momento (fra qualche anno sarà peggio) ci mancano infermieri, non medici.

A fronte di questa situazione, se ci spostiamo sull’argomento liste d’attesa, non è che la situazione italiana sia molto diversa da quella europea. Rimane comunque intollerabile. La procedura sanitaria (diagnostica o terapeutica) con il più lungo tempo d’attesa in Lombardia è la colonscopia (diagnostica) con una media di 399 giorni (stiamo parlando ovviamente del SSN, se avete un migliaio di euro da utilizzare e la situazione sanitaria lo richiede, piuttosto che fare una crociera, fate la colonscopia privata).

A fronte di tale situazione, in Lombardia l’11% dei pazienti rinuncia alle cure (tempi di attesa, costi delle prestazioni private, peggio solo la Sardegna 18,3%). Poi ci si mette la nostra Regione con delibere alle quali lascio il vostro commento. Ad esempio l’area oncologica, la prima sulla quale Regione Lombardia è intervenuta. 

I primi dieci ospedali lombardi per volumi di interventi, ovvero quelli che potremmo dunque definire ‘specializzati’ producono il 61% del totale degli interventi. Il restante 39% di interventi è distribuito in altri 58 ospedali lombardi, che in media fanno dunque volumi molto più bassi. Non sorprende che gli ospedali specializzati siano anche quelli con i tassi di mortalità post intervento a 30 giorni più bassi: 1,72% contro 2,24% in media. Per finire, questi ospedali specializzati sono anche quelli che subiscono la maggior parte delle penalizzazioni per le liste d’attesa ovviamente più lunghe (anche i pazienti sanno decidere): circa 2,7 milioni di euro (72% del totale) contro 1,1 milioni degli altri ospedali (28% del totale)”. In altre parole, le strutture che hanno i volumi maggiori sono in media anche quelle con i migliori indicatori di qualità e, per assurdo, le stesse che finiscono per essere più penalizzate dalla Regione Lombardia. 

Dove sono gli operatori sanitari e cosa fanno?

Si è assistito ad un aumento del personale sanitario nel privato accreditato rispetto al pubblico (35% privato accreditato 65% pubblico, Lombardia seconda dopo il Lazio) per una serie di motivi (retribuzione, qualità del lavoro, tecnologie).

In particolare, emerge un diffuso desiderio di fuggire dall’ospedale pubblico. Un dato che dovrebbe allarmare Istituzioni e pazienti (ANAO): infatti, se da una parte il 72% dei medici partecipanti all’analisi ANAO, potendo tornare ai tempi della fine del liceo, risceglierebbe la stessa professione, solo il 28% continuerebbe a lavorare in una struttura pubblica. Gli altri preferirebbero trasferirsi all’estero (26%), anticipare il pensionamento (19%), lavorare in una struttura privata (14%) o dedicarsi alla libera professione (13%).

Smisurata la quantità di tempo dedicata agli atti amministrativi. E anche le attività svolte nel corso dei turni la dicono lunga sull’insoddisfazione dei medici ospedalieri: il 56% ritiene eccessivo il tempo dedicato alla compilazione degli atti amministrativi mentre il 40% ritiene insufficiente il tempo dedicato all’atto medico e all’ascolto del paziente. Non pervenuta la possibilità di aggiornarsi continuamente: solo il 4% dei medici riesce a dedicare molto tempo alla propria formazione. Un’indicazione, anche se grossolana riporta 20 ore /settimana per atti amministrativi non medici (Medscape Physician Compensation Report

L’abolizione del numero chiuso nell’accesso ai corsi di laurea delle professioni sanitarie è una opzione che otterrebbe risultati nell’arco di 10 anni in media, ma che presuppone un incremento paritetico di risorse da destinare al mondo accademico (numero docenti, strutture ovvero studenti già oggi seduti per terra, laboratori, ecc) e probabilmente un esercito di disoccupati a lungo termine come già successo qualche decina di anni fa. Non voglio tediarvi oltre ma le soluzioni stanno come al solito nella volontà di investire. Prima un dato, poi un’osservazione personale.

Il Paese dove la spesa sanitaria complessiva è più alta sono gli Stati Uniti, con il 15,3% del Pil: quasi il doppio della media Ocse, pari a 6.714 dollari di spesa all’anno pro capite. La quota di PIL occupata dalla spesa pubblica sanitaria in Italia, tra soldi pubblici e privati, è del 8,7%. La finanza pubblica, quindi lo Stato, dà un contributo del 6,4%, mentre il 2,2% arriva dalla spesa privata. Rimane la distanza con altri Paesi industrializzati. La Germania e la Francia, ad esempio, hanno quote PIL destinate alla sanità dell’11,7% e del 9,4%. La spesa sanitaria pro capite in Italia è pari a 2.473 euro/anno. 

Ma cosa vuol dire sanità privata? Ce ne sono due tipi. Una veramente privata (paga il cittadino che accede, (farmacie, visite ed esami privati, ecc), si chiama spesa out of pocket ed è il 18% della spesa totale sanitaria, ovvero su un totale di spesa annua di circa 19 miliardi (in Lombardia 3,4 miliardi, circa il doppio della Sicilia) e privata accreditata (paga la regione con i soldi dei contribuenti). 

Prima di concludere finalmente un mio desiderio utopistico. Il bilancio della sanità per definizione non può essere in attivo. Deve essere un costo. Non siamo aziende anche se ci chiamiamo così, ma non costruiamo tondini di ferro ma curiamo pazienti. E non può essere tollerabile che qualcuno guadagni sulla loro salute.

Quindi per eliminare le liste d’attesa, spendiamo di più, andiamo in deficit su questa voce di bilancio, non facciamo scappare gli operatori sanitari, senza sprechi, limitiamo la burocrazia o facciamo fare gli atti amministrativi agli amministrativi (so che non sempre è possibile come per esempio chiudere una cartella clinica) ma con la convinzione che la salute è un costo cui la società deve farsi carico, indipendentemente da qualsiasi altro condizionamento, attribuiamo un salario agli operatori sanitari dignitoso, e condizioni di lavoro più umane. Non scapperanno più. Ma occorre mettere mano al portafoglio.

Ma c’è una possibilità di uscita indolore, inventata dall’AGENAS (Agenzia Nazionale per i Servizi Sanitari Regionali). Ecco che, con un efficace gioco di prestigio, la carenza di medici è destinata a scomparire. È stato superato il tetto di spesa sul personale? Si è forse deciso di aumentare le retribuzioni dei professionisti e di approvare un contratto che migliori le condizioni del loro lavoro per frenare la fuga dal Servizio sanitario nazionale? Ci si è convinti della necessità di assumere veramente gli specializzandi e di rendere nuovamente attrattivo lavorare in ospedale? Niente affatto!

Il problema si risolve alla radice, peggiorando il metodo con cui si calcola il fabbisogno di personale, per cui per gestire ciascun reparto saranno necessari meno medici. Che dovranno svolgere le stesse attività di oggi, sia ben chiaro. La soluzione era così semplice, sotto gli occhi di tutti, incredibile che non ci abbia mai pensato nessuno.

 

Raffaele Novario, Circolo PD Varese, Già Dirigente e Docente Fisica Sanitaria ASST

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