Da mesi Israele è scosso da proteste contro la riforma della giustizia portata avanti dal Governo Netanyahu, il VI dell’era di Bibi come viene chiamato dai suoi sostenitori il premier e capo del Likud.
Israele, in tutti questi decenni, fin dalla sua drammatica fondazione avvenuta nel 1948, è sempre stato considerato dal mondo occidentale così come dai suoi cittadini l’unica democrazia presente nel medio-oriente.
Questa certezza frutto del fatto che le Istituzioni israeliane sono forgiate sul modello liberal democratico tipico del c.d. mondo libero e quindi sulla divisione dei poteri, sembra, tuttavia, ora, vacillare.
Non solo. Parecchi analisti di politica internazionale sono arrivati a ritenere che il rischio di una guerra civile sia molto più vicino di quanto sembri e questo anche a causa del peso, nel Paese e nel governo, di estremisti ebraici lontanissimi dai padri fondatori dello Stato Ebraico.
Ma cosa è accaduto in questi decenni tanto da portare alla situazione attuale? Tralascio qui tutto il tema delle guerre di Israele con i paesi arabi così come tutta la questione relativa ai palestinesi e mi concentro su Israele e le sue “ tribu’ ” unico modo per capire l’oggi.
In origine in Israele e quindi parliamo dell’anno di fondazione, il 1948, oltre a coloro che abitavano od erano nati in Palestina annoverava tra i suoi cittadini ASHKENAZITI o SEFARDITI.
Gli ashkenaziti erano e sono tuttora le persone provenienti dall’Europa, in particolare dall’Europa dell’Est, mentre i sefarditi sono gli ebrei provenienti dai paesi medio-orientali.
Seguendo il sogno sionista della costruzione di un “focolare” per il popolo ebraico lanciato da T. Herzl l’emigrazione ebraica dall’Europa verso la Palestina iniziò sul finire dell’800 per raggiungere la punta di oltre 100mila persone nel 1929. La presa del potere dei nazisti in Germania e le persecuzioni dei diversi regimi fascisti o comunisti fecero poi aumentare nel corso degli anni trenta, la presenza ebraica nella regione con il deciso afflusso dopo la fine della seconda guerra mondiale con i sopravvissuti alla shoà. I sefarditi e cioè gli ebrei di origine medio-orientale emigrano successivamente alla proclamazione dello Stato d’Israele e questo per fuggire dalle persecuzioni o perchè espulsi dai loro paesi per rappresaglia nei confronti del nuovo Stato e a causa delle sconfitte subite dai paesi arabi per opera dell’esercito israeliano.
Per decenni la maggioranza della popolazione dunque è stata di origine europea e questo spiega anche la “stabilità” e l’ ”omogeneità” politica di Israele. Per decenni dai kibbutz alle città il sogno sionista si è identificato con i laburisti e i laici i quali fino al 1977, ininterrottamente, hanno governato lo Stato Ebraico con maggioranze quasi sempre assolute nel Parlamento di Gerusalemme.
Nel 1977 vincono i conservatori nazionalisti di M. Begin e la storia del Paese comincia a cambiare.
Innanzitutto un dato di partenza. I sefarditi hanno sempre denunciato discriminazioni nei loro confronti da parte dell’elite di Israele tant’è che il loro appoggio è andato via via crescendo verso il Likud di Begin, ieri, ed oggi di Netanyahu.
Dal 1948 poi i flussi migratori sono nel corso dei decenni cambiati. Sono arrivati più sefarditi, sono arrivati i “falasha” ( o Beta Israel ) dall’Etiopia e poi ,dopo il crollo dell’URSS, centinaia di migliaia di ebrei dalle ex repubbliche sovietiche.
Ma tutto questo non basta a spiegare ancora l’attuale situazione né la perdita di potere da parte dei laburisti e la quasi scomparsa della sinistra in Israele ( oggi conta 6 deputati su 120 alla Kneset ) e il minor peso dei laici come degli ashkenaziti. Nel 2015 Reuven Revlin presidente d’Israele pronunciò un celebre discorso sulle “4 tribù d’Israele” intendendo con ciò sottolineare l’esistenza di un nuovo ordine nel Paese.
In sostanza Revlin sottolineò questi dati circa la composizione demografico/religiosa/etnica di Israele: 38% laici, 15% religiosi, 25% ultraortodossi ed infine 25% di arabi.
Un’altra rilevazione, poi, ha diviso la popolazione israeliana in altri 4 sottogruppi: Haredim ( ultraortodossi ), Datim ( religiosi ), Masortim ( tradizionalisti ) e Hilonim ( secolari ).
Da questa seconda ripartizione emerge un dato essenziale per comprendere l’oggi. Soltanto gli Hilonim sono favorevoli al primato dei principi democratici rispetto a quelli religiosi mentre gli altri tre sottogruppi o sono divisi o sono fautori della supremazia religiosa.
Ora, se escludiamo la componente araba da sempre ai margini della società e della politica possiamo ricondurre a semplificazione identificando due gruppi: la componente religiosa, composta da sionisti revisionisti e dagli haredim in piena esplosione demografica che conduce di fatto l’offensiva per affermare il primato della religione sulla politica. Mentre il secondo gruppo è quello del sionismo secolarizzato che difende l’attuale sistema.
Tenendo in conto di questa frattura che attraversa stabilmente ormai Israele si può comprendere come le attuali proteste in campo mettano in gioco di fatto ben altri effetti rispetto alla semplice contestazione di un provvedimento legislativo.
La questione politico-giudiziaria ha di fatto un altro obiettivo ben più importante e cioè la questione legata all’ “anima di Israele”.
Per Netanyahu è questione di sopravvivenza politica rispetto alle sue vicende giudiziarie, ma anche di natura tattica dato che vuole riuscire ad integrare, cambiando quindi i connotati ad Israele, la componente ultra-religosa anche dal punto di vista politico.
Ma attenzione la comunità ultraortodossa aumenta più di ogni altra. Gli ebrei di stretta osservanza ortodossa costituiscono una enclave all’interno del territorio di Israele e paradossalmente godono da cittadini di diritti e benefici inaccessibili al resto della popolazione. Ma di qui un paradosso. La comunità degli Haredim che sono essenzialmente conservatori e tradizionalisti sono pronti ad abbandonare il loro guscio solo se Israele si trasformerà in una teocrazia ed è per questo che ora si sentono solo incidentalmente parte di Israele.
Qual’è dunque l’obiettivo politico delle forze politiche oggi presenti alla Kneset, il Parlamento Israeliano e che rappresentano gli Haredim?
Sfruttare al massimo la congiuntura politica. Leggi, debolezza di Netanyahu e dei laici.
Rendere irreversibile lo status di cui godono gli Haredim. Mantenere inalterati i finanziamenti per le scuole religiose che promuovono lo studio dei testi sacri ebraici e seguono programmi del tutto autonomi rispetto a quelli statali, stipendi per chi sceglie di proseguire gli studi religiosi anziché lavorare ed ovviamente sfuggire alla leva obbligatoria a cui tutti gli israeliani sono chiamati per tre anni.
Insomma, gli Haredim, paradossalmente, vogliono due “Stati”, ma all’interno di Israele, una sorta di ritiro dalla vita sociale per vivere un nuovo shtetl, in lingua yiddish, uno di quei villaggi dell’Europa orientale sorti tra il XVI e il XVIII secolo dove la popolazione era quasi totalmente ebraica e che per gli attuali haredim rappresenta la società perfetta.
Dunque l’attuale battaglia per modificare il potere della Corte Costituzionale non è solo la battaglia verso chi si oppone alle riforme pro Haredim, ma è sostanzialmente una battaglia per l’anima di Israele, tra chi vuole il Paese ancorato ancora alle liberal-democrazie e chi invece lo vuole riportare al centro dei precetti religiosi.
In questo contesto così complicato non è da sottovalutare la ribellione anche negli ambienti moderati che fanno capo a Netanyahu. Così come non è da sottovalutare, in un Paese come Israele, la ferma protesta delle Forze Armate dove i riservisti hanno rinunciato alla chiamata per il periodo di addestramento e per un Paese che è in guerra coi suoi vicini dal giorno della sua fondazione, i riservisti costituiscono la spina dorsale dell’esercito tanto più che questa protesta è totalmente inedita e ci da il senso della gravità della situazione.
Dunque, Israele è veramente di fronte ad un bivio per la prima volta della sua storia moderna. Può passare tra gli Stati medio-orientali e quindi caratterizzarsi come uno degli Stati teocratici o autoritari che compongono il quadro politico che lo circonda oppure rimanere ancorato agli insegnamenti dei Padri fondatori continuando a guardare all’Europa e agli Stati Uniti. Qualunque scelta avverrà questa, piaccia o no, produrrà tensioni e mutamenti anche in Europa e negli Stati Uniti e il quadro storico delle alleanze internazionali potrebbe subire uno scossone tale da determinare una situazione inedita per tutti, compreso anche il variegato mondo ebraico così come lo conosciamo noi oggi.
Roberto Molinari